La lunga marcia dei Cimbri e dei Teutoni

L’invasione dei Cimbri e dei Teutoni, che negli ultimi due decenni del II secolo a.C. sconvolse profondamente mezza Europa, dall’Ebro fino alla foce del Sava e dal Po fino alla Senna, viene considerata ancora oggi la quintessenza del terrore che può essere provocato da una valanga migratoria germanica.

Le invasioni cimbro-teutoniche, scatenate, si dice, da grandi alluvioni e carestie verificatesi nella loro patria scandinava d’origine, sono considerate, da allora, come classiche migrazioni di popoli.

E’ comunque storicamente accertato che i Cimbri, i Teutoni, gli Ambroni e gli Harudi stanziati nella parte settentrionale della penisola dello Jutland partirono intorno al 120 a.C., giungendo in breve tempo nella terra dei Celti Stordisci, fino alla Sava, alla Drava, al Danubio e nel 113 a.C. si diressero quindi verso Nord contro il regno del Norico, alleato dei romani.Il console Papirio Carbone li attendeva, temendo che valicassero le Alpi, al comando di due legioni. Marciò quindi verso di loro, accusandoli di aver invaso il territorio dei Taurisci, che erano amici del popolo romano. I Cimbri inviarono al console degli ambasciatori informandolo che nulla sapevano dell’amicizia dei Taurisci coi Romani e assicuravano che in futuro li avrebbero lasciati in pace. Papirio Carbone diede loro delle guide che gli indicassero il cammino verso nuove terre, ma segretamente egli comandò alle guide di portarli fuori strada, mentre lui, prendendo una strada più breve, si precipitava nello stesso punto. Assalì così i barbari che stavano riposando ma pagò il suo tradimento con la sconfitta e gravissime perdite.

I Cimbri e i Teutoni abbandonarono la zona del basso Danubio e attraversarono il Reno nei pressi della confluenza del Meno, nel territorio degli Elvezi, dai quali ricevettero delle terre in cui stanziarsi provvisoriamente. Successivamente lasciarono questi luoghi e varcarono il Reno, penetrando nella valle del Rodano dove si scontrarono con gli Allobrogi, anche loro alleati di Roma. Il console che mosse nuovamente contro i popoli in migrazione, in aiuto degli Allobrogi, si chiamava Marco Giulio Silano. Questi si vide davanti una ambasceria formata da figure gigantesche che cercavano di spiegargli con l’aiuto di un interprete che erano in quelle terre per trovare una patria, non per soggiogare popoli. Il console rinviò, quindi, l’ambasceria al senato romano e i germani mandarono a Roma una delegazione composta dai personaggi più nobili. La risposta del senato fu però negativa.

Quando gli inviati tornarono dai loro popoli, il console Silano li assalì di sorpresa, con tutte le sue truppe, senza l’ordine del senato. Si ripeté quello che successe a Noreia, ma l’esito fu più grave: quattro legioni – oltre 24000 uomini – furono annientate.

Dopo altri quattro anni di saccheggi e battaglie contro popolazioni celtiche per cercare un terra in cui stanziarsi, decisero di scendere in Italia. Tre forti eserciti stavano sulla riva del Rodano, pronti a difendersi. Sulla riva occidentale si trovava il proconsole Servilio Copione, su quella orientale il console Mallio Massimo e lontano a nord erano accampate le legioni del console Aurelio Scauro.

Su quest’ultimo si abbatté il primo assalto dei germani, e non c’è alcun altro condottiero romano che sia stato vinto più rapidamente e totalmente di lui. Le sue legioni, prima ancora che il sole calasse, si diedero alla fuga lasciando molti prigionieri. Il console si rivolse allora ai colleghi in cerca di aiuto, ma non fu ascoltato.

I germani mandarono ancora diplomatici con la richiesta di una concessione di terre: una richiesta, non una pretesa, nonostante le recenti vittorie. Accennano solo alla volontà divina che ha permesso loro di vincere tutte le battaglie. Il proconsole però li cacciò via con la minaccia di una loro prigionia.

Il dado era tratto. Nulla poteva offendere di più la loro gente che un affronto sull’onore.
Decisero di assalire i nemici e giurarono di sacrificare agli dei il bottino e i prigionieri, se avessero dato loro la vittoria.
La battaglia ebbe luogo nei pressi del Rodano. Copione, immaginando che Massimo volesse toglierli la palma della vittoria, mosse per primo all’assalto e si trovò in difficoltà. Il tardo aiuto del console non servì a nulla.

I contemporanei ci dicono che 80000 romani e 40000 tra addetti alle salmerie e i vivandieri, furono trucidati dai germani. Il numero è ovviamente esagerato, ma fu comunque uno sterminio. Le vesti dei caduti furono lacerate e trascinate nel fango, l’oro e l’argento vennero gettati nel fiume, le corazze fatte a pezzi, gli ornamenti dei cavalli distrutti. I cavalli stessi furono annegati nel fiume e gli uomini appesi agli alberi con corde al collo, offerti in onore di Wotan.

Quando queste notizie giunsero a Roma, la città fu presa dal panico, ma con loro grande sorpresa, i Cimbri e i Teutoni si ritirarono verso la Gallia, dividendosi: i Cimbri si diressero verso la Spagna e i Teutoni verso la Gallia Centrale.

Nell’anno 102 a.C. i Teutoni e i Cimbri si riunirono e decisero di ritentare la calata in Italia. I Cimbri attraversarono il Reno e marciarono verso le Alpi Orientali, i Teutoni discesero lungo il Rodano per piombare in Italia attraverso le Alpi Occidentali.

I Teutoni s’imbatterono per primi nel nemico, guidato dal generale Mario. Per tre giorni diedero l’assalto, ma furono sanguinosamente respinti dai romani che erano molto superiori a loro nella guerra di posizione. Al quarto giorno

“i barbari partirono e passarono davanti all’accampamento romano con tutti i loro averi. Solo ora, misurando la durata e la lunghezza del loro convoglio, si poteva comprendere quanto enorme fosse il loro numero. Si dice che per sei giorni consecutivi, senza interruzione, siano sfilati davanti alle fortificazioni. […]” (Plutarco).

Mario seguì i Teutoni con la massima prudenza, rispettoso per un avversario che aveva inferto a Roma la più grande sconfitta della sua storia, e quando ci si accampò per la notte, costrinse i suoi soldati a fortificare il campo, come in previsione di un lungo assedio. Mario aveva superato il nemico e quando giunse nel territorio di Aquae Sextiae, oggi Aix-en-Provence, si scontrò con l’avanguardia del nemico: una tribù di Ambroni. Dopo la battaglia i romani si ritirarono nel loro accampamento.

“Per tutta la notte echeggiò un lamento, che non somigliava al pianto e alle grida degli uomini, ma all’urlo e al ruggito di animali selvaggi e che, mescolato a minacce e a lamenti funebri, nascendo da una moltitudine così sterminata di uomini, faceva echeggiare le montagne intorno e le rive del fiume. Mentre l’orrendo clamore si diffondeva tutto intorno, una grande angoscia assalì i romani e Mario stesso era pieno di timore e ansia.” (Plutarco).

I Teutoni, non mossero l’attacco né il giorno dopo né in quello successivo. Seppellirono i corpi dei fratelli ambroni e allestirono cerimonie funebri grandiose. I Teutoni furono così all’oscuro del fatto che tremila legionari guidati dal legato Claudio Marcello si erano portati alle spalle del nemico, pronti a chiudere loro la via della fuga. Il giorno seguente i germani assalirono l’accampamento romano ma la vittoria arrise ai romani che respinsero il nemico nella piana, dove però i Teutoni presero il sopravvento. Apparvero allora i legionari di Marcello. La battaglia divenne una carneficina: Plutarco ci parla di 100000 uomini, tra caduti e prigionieri.

“La terra era stata così ben concimata dai cadaveri in putrefazione che al tempo della raccolta diede una enorme quantità di frutti […..]” (Posidonio).

Nel frattempo i Cimbri avevano varcato il Brennero, mettendo in fuga il generale Catulo e tutto il suo esercito e Mario dovette giungere in suo soccorso con il suo esercito.

I due eserciti si scontrarono presso i Campi Raudii vicino a Vercellae (odierna Rovigo)*. Il combattimento fu cruento e i morti furono tantissimi da entrambe le parti. Il 30 giugno del 101 a.C. vide la fine del combattimento quando i romani riuscirono ad accerchiare il nemico.
Ne seguì il panico delle linee nemiche e pertanto una carneficina indescrivibile. Il re Boiorix morì in quella battaglia, alcuni come il capo Lugio si suicidarono.
I legionari irruppero nell’accampamento di carri e trovarono a difenderlo le donne germaniche. Accadde allora una tremenda tragedia umana. Le donne si lanciarono in combattimento contro i legionari romani e vennero sopraffatte.
Circa trecento donne riuscirono a sopravvivere al massacro e non videro alcuna via di scampo. Sapevano dalla guerre condotte dai loro uomini in Gallia e Spagna che le donne erano un preda ambita. Le donne bionde avevano un alto prezzo al mercato di schiavi, se vi giungevano, perché erano libera selvaggina per la soldataglia. Le donne pregarono Mario di “concedere loro, a difesa della loro castità, di entrare a far parte delle vestali, consacrando così la loro vita al servizio degli dei.” Ma il console Mario rifiutò, doveva rifiutare, altrimenti avrebbe violato la legge di guerra, la legge non scritta che permette il saccheggio ai soldati.

“ […] allora presero le spade che avevano impugnato contro i nemici, e le rivolsero contro se stesse e i proprio congiunti. Alcune si trafissero scambievolmente, altre afferrandosi per la gola si strozzarono a vicenda, altre legarono una corda alle zampe dei cavalli e, dopo averla avvolta intorno al proprio collo, frustarono i cavalli e furono da esse trascinate e dilaniate. Altre si appesero con una corda al timone del proprio carro che avevano drizzato in alto. Fu rinvenuta persino una donna che aveva legato, con un corda al collo, i due figlioletti ai propri piedi e, dopo essersi lasciata cadere nel vuoto per impiccarsi, aveva parimente trascinato nella morte i suoi bambini” (Orosio, Historiae).

Il suicidio in massa delle donne, la morte per mano propria dei capi dei Cimbri, il reciproco incatenarsi dei combattenti in prima linea, la sfida di Boiorix a determinare tempo e luogo della battaglia, dimostrano che i Cimbri erano pieni di un forte sentimento religioso e che erano pronti a considerare l’esito della guerra, sui Campi Riudii, un vero e proprio giudizio divino. Se questa era stata la decisione degli Dei, il loro popolo non meritava altro che la fine.

I dati circa le perdite sono incerti: Floro parla di 65000, per Plutarco sono il doppio. Vi è concordanza solo sui prigionieri: circa 60000.
La sconfitta non era dovuta solamente al caldo, come spesso si pensa, né alla menzionata superiorità dei romani nell’arte della guerra, né la loro disciplina, perché ambedue erano compensate dall’assoluto disprezzo della morte e dalla forza selvaggia dei germani. Decisero invece virtusopus e arma.

Dove l’opus, l’instancabile, umile lavoro di fortificazione fu ancora più importante della virtus, del valore, e importantissimo poi il tipo di arma, il pilum, il giavellotto dei romani. Il pilum era formato da un fusto di legno lungo circa un metro e da una testa di ferro, suppergiù della stessa lunghezza, terminante in una punta a uncino. Non lo aveva inventato Mario, dato che deriva dalla saunia celtica, ma lui lo aveva usato come arma principale.
Posidonio scrive:

“L’anima di una umanità primitiva, ben dotata ma immatura, un’anima legata ancora alla natura e mossa da quelle forze violente e selvagge, la cui virtù, magnificenza, istintività e pericolosità il filosofo della morale riconosce come scoppi d’ira allo stato puro.”

Il thymos, il selvaggio coraggio dei germani, dovette soccombere al logos, la fredda ragione dei romani.
Ma i Cimbri non furono sconfitti del tutto e sterminati…

Parva nunc civitas, sed gloria ingens. (Tacito, Germania.)
Una tribù ora insignificante, ma carica di gloria.

*:  J. Zennari (“I Vercelli dei Celti nella valle Padana e l’invasione cimbrica delle Venezie”) ha sostenuto sulla base di un’ampia documentazione letteraria ed epigrafica che il termine Vercelli non deve essere inteso come nome proprio di città, ma come nome comune di origine celtica per indicare le zone di estrazione dei metalli, come il latino “Campi Riudii”. Lo Zennari (“La battaglia dei Vercelli o dei Campi Riudii”) localizza lo scontro nella zona tra Rovigo e Ferrara, come E. Badian (“From the Gracchi to Silla”), e vi collega la testimonianza plutarchea (Marius, 2, 1) sull’esistenza di una statua di Mario, per celebrare la vittoria, nella vicina Ravenna.

BIBLIOGRAFIA:
Herwig Wolfram, I germani, Il Mulino
S. Fischer-Fabian, I Germani, Garzanti
Plutarco, Vita di Caio Mario.
Tacito, Germania.
Orosio, Historiae.

L’immagine, che raffigura un tracciato approssimativo della migrazione, è presa da www.wikipedia.org